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Liutprand - Associazione Culturale

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Articoli

di Alberto Arecchi

PELLEGRIN CHE VIEN DA ROMA...


Nel Medioevo era speranza e proposito d'ogni buon cristiano di recarsi, almeno una volta nella propria vita, a piedi o a dorso d'asi­no, a visitare le tombe dei Papi o il sepolcro di Cristo. In un certo senso "divenne una moda", per l'Europa cristiana, partire in pelle­grinaggio, mettersi una bisaccia in spalla e allontanarsi da casa per anni, per visitare Roma, Santiago de Compostela o la Terra Santa. La vita di Sant'Alessio, patrono dei pellegrini, fu uno dei primi testi della lingua francese. Più vicino a noi, si cantava la canzone:

La vita di Sant'Alésio che béla vita l'è,
sò pàdar e sò màdar vurévan fagh to mujé
e lü, sto pòr martròn, l'à faia ind-i calsòn.
Lü'l s'è spusà no, cla séra lì l'è partì,
l'è 'ndai ramingo, s'è fai pelegrino,
perché è il patrono dei pellegrini.

L'usanza dei pellegrinaggi verso Roma iniziò nel sec. V e fece passare per mille anni nelle nostre terre i viaggiatori provenienti da Francia e Germania. San Brizio, vescovo di Tours, nel 430 e San Germano, vescovo di Auxerre, nel 448, furono tra i primi. Raccon­ta Paolo Diacono, nella sua Storia dei Longobardi, che al principio del regno di Liutprando, quando in Francia regnava Pipino,

molti Angli, nobili e popolani, uomini e donne, duchi e privati, spinti dall'amore verso Dio, solevano venire a Roma dalla Britan­nia.

Si era nel sec. VIII. Due grandi itinerari percorrevano il territo­rio lombardo: quello nord-sud, proveniente dalla Germania, attra­verso l'Alto Ticino, Milano, Genova, diretto a Roma, e quello ovest-est, proveniente dalla Francia, attraverso il Piemonte, Pavia, diretto verso Piacenza, ai porti adriatici o ancora verso Roma. Dobbiamo intendere ognuno di questi itinerari non come un'unica strada, ma come un fluire di corsi più o meno paralleli, che si intrecciavano tra loro soprattutto in corrispondenza dei ponti e dei guadi sui corsi d'acqua o dei passi montani. Lungo i percorsi dei pellegri­naggi, Pavia era un nodo stradale di grande importanza. Era capita­le del regno d'Italia e vi convergevano le strade dalle Alpi per di­ramarsi verso est, al porto di Venezia, o lungo la via Emilia scende­re verso Roma o ai porti pugliesi, o verso sud, per imboccare la valle Scrivia e puntare su Genova, o a raggiungere la costa tirrenica attraverso la Val Trebbia e Bobbio. Da sempre, inoltre, qui era possibile imbarcarsi e proseguire la discesa al mare Adriatico per via fluviale.

L'Islam andava diffondendosi nel Mediterraneo e attaccava l'Eu­ropa da sud. Sul finire del sec. IX pirati saraceni si impadroni­rono del castello di Fraxinetum, nel golfo di St. Tropez (località che oggi si chiama La Garde-Freinet). La costa ligure e Portovenere, come alcune valli dell'Appennino, furono pure basi stabili di prin­cipati mussulmani. In alcune valli dell'Oltrepò Pavese si tramanda la leggenda di città sepolte, fondate dai Saraceni. Da qui, essi spin­gevano le loro incursioni sino ai valichi alpini, sino al San Bernar­do coperto di nevi. Nel luglio 972, sul Gran San Ber­nardo, fu cat­turato anche San Majolo, abate di Cluny, che si stava recando in pellegrinaggio a Roma. I cronisti cristiani parlavano di chiese sac­cheggiate, di piazze piene di cadaveri, di tombe adoperate come abbeveratoi per le pecore, di prigionieri incatenati che veni­vano mandati alle miniere. Infine una federazione capeggiata dai conti di Provenza e da Arduino di Torino attaccò Frassineto, mas­sacrò la comunità mussulmana ed eliminò i Saraceni dalla costa li­gure-pro­venzale. Fra i comandanti di questa spedizione la tradizio­ne vuole che fosse anche Bevons de Noyers, cavaliere provenzale che si sa­rebbe in seguito fatto pellegrino a imitazione di Sant'Ales­sio. Egli morì il 22 maggio 986, in un campo alle porte di Voghera ove so­stavano i viandanti, mentre ritornava da un pellegrinaggio alla tomba di San Pietro. La popolazione cominciò a venerarlo come santo (San Bovo) e finì per proclamarlo patrono della città.

MONACI, CAVALIERI DEL TEMPIO E DI SAN GIOVANNI
La rinascita medievale dell'Occidente cristiano fu dovuta agli ordini monastici dei Benedettini (cluniacensi) e dei cistercensi e agli ordini cavallereschi nati intorno all'impresa delle Crociate. Tali ordini fecero fiorire l'architettura delle grandi abbazie e cattedrali, la poesia, la filosofia, l'alchimia e posero le basi della scienza spe­rimentale moderna. In particolare i monaci cluniacensi legarono il proprio nome alla diffusione dell'arte romanica (ricordiamo San Pietro in ciel d'oro a Pavia) e quelli cistercensi all'arte gotica, con l'organizzazione attenta dei cantieri e coi suoi precisi progetti mo­dulari, basati sull'esprit de géometrie  (Acqualunga nella Bassa Lomellina, Morimondo, Chiaravalle Milanese, Cerreto Lodigiano).

Le strade d'Europa, lasciate in abbandono dopo la rovina del­l'Impero romano, erano insicure per i briganti e per gli impaluda­menti. Per ristabilire la sicurezza e proteggere i pellegrini (ma an­che le comunicazioni e i commerci), gli ordini militari dei monaci-cavalieri crociati si applicarono alla manutenzione delle strade e dei ponti e costruirono una fitta rete di castelli, "mansioni", ospizi, presso tutti i guadi di una certa importanza, dove l'attraversamento di un corso d'acqua poteva costituire un pericolo.

In Italia si ritrovano le loro tracce lungo le coste, contro le in­cursioni dei pirati saraceni, nelle città, sui valichi montani, alla con­fluenza dei corsi d'acqua per proteggerne il guado, ma forse anche nell'intento di perpetuare l'atavica credenza che la congiunzione delle acque generasse un flusso di potenza.

Nati per combattere gli "infedeli" mussulmani sulle frontiere orientali, in Siria e Palestina, gli ordini cavallereschi e ospitalieri assimilarono e importarono molte cose della cultura e della tradi­zione orientali. Essi tentarono ambiziosamente di unificare cultu­ralmente e politicamente non soltanto l'Europa cristiana, ma tutto il mondo mediterraneo. Tra i misteri esoterici che si attribuiscono agli Ordini dei Cavalieri cro­ciati, ricordiamo la ricerca dell'Arca dell'Alleanza e quella del Santo Graal.

I più importanti fra gli ordini cavallereschi erano quello dei Templari (fondato nel 1118 e soppresso nei primi anni del Trecen­to) e quello degli Ospitalieri di San Giovanni, detti anche Geroso­limitani (chiamati in seguito "di Rodi" e "di Malta"). Sui Templari aleggia una fama di mistero, alimentata dalle oscure vicende che portarono alla loro soppressione. Essi avevano costituito, in tutta l'Europa cristiana, un ampio potere militare, ma anche economico e finanziario, e prestavano denaro a privati, ma anche alle monarchie del continente. I Templari dovettero godere nella società del tempo di una fama piuttosto sinistra. Vestiti di palandrane grigie, la testa completamente rasata, la barba lunga e incolta, conducevano una vita monastico-militare, distinti in caste rigide (combattenti, serven­ti). Erano talmente misogini da ripugna­re la stessa vicinanza d'una donna e talmente affezionati al denaro (non individualmente, ma nella logica dell'Ordine) da creare la prima multinazionale finan­ziaria dell'Occidente. Tale potere si scontrò inevitabilmente con quello di imperatori (Federico II, ad esempio) e re (Filippo il Bello, in modo particolare) che ne teme­vano l'ingerenza.

Nell'ottobre 1307, a Parigi, il re di Francia Filippo il Bello fece arrestare il Gran Maestro del Tempio Jacques de Molay e i suoi più stretti collaboratori, sotto l'accusa di praticare segretamente la ma­gia, di aver rinnegato Cristo e la fede cristiana per adorare idoli diabolici, di dedicarsi alla sodomia e a riti osceni. I processi, le torture, le condanne al rogo si susseguirono da allora in tutta Eu­ropa, con accenti più o meno violenti, sinché nel 1312 il papa Cle­mente V, durante il concilio di Vienne, non decise di sciogliere l'Ordine del Tempio.

I processi contro i Templari delle case poste lungo la via Romea o Regina si svolsero a Ravenna e durarono sino al 1311. Contra­riamente a quanto avvenne altrove, fra Siclerio, precettore della domus di Santa Maria del Verzario, e i suoi confratelli non furono sottoposti a tortura e alla fine furono assolti nel processo diretto dall'arcivescovo di Ravenna Rinaldo da Concorezzo. Ricordiamo la motivazione della sua sentenza:

Devono essere considerati innocenti coloro per i quali è possibile dimo­strare che hanno confessato solo per timore della tortura. È innocente an­che chi ha ritirato la confessione estorta con la violenza oppure non ha osato ritirarla per timore di essere nuovamente torturato.

(Ravenna, 18 giugno 1311)

Rinaldo da Concorezzo passò alla storia per tale sentenza e per il rifiuto di estorcere le confessioni con la tortura, anticipazioni delle tesi di Cesare Beccaria e di logiche processuali dell'epoca moderna. In Italia furono i Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni che ne rac­colsero l'eredità e incorporarono anche quei cavalieri templari che non erano stati condannati. In Francia, invece, la vicenda si conclu­se il 18 marzo 1314, su un isolotto della Senna, con la morte sul rogo del Gran Maestro e dei suoi più stretti collaboratori. La leg­genda vuole che, nel morire, lanciasse una tremenda maledi­zione sul papa e sulla monarchia francese e che ogni anno, nell'anniver­sario di quella notte, una figura avvolta in un bianco mantello con la croce rossa risvegli tutti i Templari sepolti, a compiere le loro vendette, al grido: "Chi difenderà il Santo Sepol­cro?".

Nei primi anni del sec. XIII era precettore del Tempio per Pavia e Casei Gerola (Caselle) fra Morozzo de Piazzano, alla metà del se­colo troviamo come precettore a Pavia fra Enrico di Ponzone, il quale reggeva nel 1252 la domus di San Donnino e l'hospitalis di Sant'Eustacchio. Gli successero Gabriele de Gambalara o de Gambelaria e Nicola Barachinus, i quale parteciparono ai capitoli provinciali tenuti a Piacenza nel 1268 e nel 1271. I Templari pa­vesi erano in quel periodo strettamente alleati alla politica ponti­fi­cia e nel 1289 papa Niccolò IV li invitò a resistere a Giacomo III d'Aragona e a non versargli le decime per tre anni.

Le fortificazioni e gli ospizi fondati dagli ordini di cavalieri su­birono nel tempo molte trasformazioni e cambi di proprietà, tanto che è difficile oggi ricostruirne la storia sino alle loro origini. In molti luoghi si possono riconoscere ancora i simboli dei Crociati, fra i quali l'inconfondibile croce a otto punte, simile a una stella, dell'Ordine di San Giovanni (Croce di Malta).

COSTUMI, ROSE E SPINE
I pellegrini diretti in Terrasanta erano chiamati oltremontani o palmieri, quelli che andavano verso Roma si chiamavano romei. Da questi termini, nella società italiana, sono derivati dei cognomi: in tutta Italia ci sono famiglie che si chiamano Pellegrini, Palmieri o Romeo. I pellegrini si distinguevano per gli abiti caratteristici, che venivano benedetti prima della loro partenza: una mantellina detta appunto "pellegrina", il bordone, alto bastone su cui appoggiarsi, il cappello ad ampie tese con la falda anteriore rialzata, recante il di­stintivo delle chiavi di San Pietro, per i romei, o della palma o della conchiglia per quelli diretti in Palestina (palmieri) e a Compostela. Il distintivo dei pellegrini era una conchiglia, il "pettine di San Gia­como": sarebbe divenuta l'emblema degli ospedali, la troviamo raf­figurata nei cortili dell'antico Ospedale San Matteo di Pana. Infine la bisaccia, o scarsella, unico bagaglio per il viaggio. Non occorre­vano cambi d'abiti, poiché era costume generale vestirsi per anni con gli stessi indumenti e il bagno era usanza praticamente scono­sciuta (oltre che considerata moralmente riprovevole). I pel­legri­naggi e le crociate costituirono una grande occasione per eva­dere dalla vita quotidiana. I lunghi percorsi attraverso vari paesi facilita­vano le occasioni d'incontro. Il risultato non era sempre quello di una vita edificante. Le masse in movimento sfuggivano ai controlli sociali e talvolta il pellegrino veniva visto come un asocia­le, se non un immorale. Istruttive in questo senso sono le ballate popolari, come quella famosa "Pellegrin che vien da Roma", ma anche l'auto­re dell'Imitazione di Cristo avverte: Qui multum pere­grinantur raro sanctificantur (chi fa molti pellegrinaggi, raramente diventa santo). Intorno alle vie di pellegrinaggio fiorì la letteratura delle Chansons de geste. Dalla Chanson de Roland che mitizzò il passo di Ronci­svalle, passaggio sui Pirenei della strada dei pelle­grini diretti a San­tiago de Compostela, alla leggenda di Waltharius, pellegrino tede­sco ricordato nel Chronicon di Novalesa, e a quella dei pellegrini Amico e Amelio, sepolti a Sant'Albino di Mortara, che nel mito si trasformarono in paladini del seguito di Rolando. Le Chansons de geste francesi ripercorrono gli itinerari romei e ricordano, con altri luoghi, Mortara, Pavia, Piacenza.

Nacque probabilmente in quell'epoca il tradizionale detto porto­ghese: Roma e Pavia não se fizeram num dia (Roma e Pavia non sono state fatte in un sol giorno), o piuttosto Roma-Pavia: não se fez num dia (non abbiamo fatto in un sol giorno la strada da Roma a Pavia).

Le immagini della rosa e della spina, frequenti nei romanzi cor­tesi, sono talvolta viste come un simbolismo occulto di "misteri" ri­servati agli iniziati. Spina o Spino era il nome frequentemente dato alle stazioni templari al di fuori delle mura delle città (Spinadesco, Spino d'Adda, ecc.), cui corrispondeva la "rosa", ossia la casa madre all'interno delle mura. Spesso la rosa e la spina erano collegate da passaggi segreti, che consentivano solamente agli ap­partenenti al­l'Ordine ("iniziati") di superare inosservati le barriere di controllo alle porte della città. Ricordiamo, per inciso, che la rosa appariva nell'emblema di diverse famiglie e, in particolare, in quello dei Mezzabarba.

Su diversi toponimi potremmo soffermarci per sviluppare ana­loghe considerazioni (uno dei più frequenti è quello di "motta", che può comunque corrispondere a diversi significati, a seconda dell'epoca di formazione). Pavia è circondata da motte, ma non ri­corre qui il toponimo "spina". Considerazioni interessanti sono state svolte anche su misteriose forme stellari che appaiono nella topografia della pianura, tra corsi d'acqua, santuari e castelli, e sui luoghi sacri disposti circolarmente, alla distanza regolare di cinque miglia, intorno alla Certosa di Pavia.

LABIRINTI E RELIQUIE
Il pellegrinaggio era un "viaggio iniziatico", una conversione, un cambiamento radicale di vita. In esso e nei suoi miti si fondevano perciò il fascino e le tradizioni di antichi riti iniziatici e di culti esotici, con influssi di leggenda, di alchimia, di magia. Non per nulla, quando si volle abolire l'Ordine dei Templari, essi vennero accusati di praticare culti magici segreti, di provenienza orientale. In Francia e in Italia, nei santuari collegati ai pellegrinaggi, ritro­viamo le Vergini nere, statue della Madonna di legno o di bronzo, dal colore scuro. Si racconta che San Bernardo di Chiaravalle, quand'era studente, nutrisse una venerazione particolare per una Madonna nera e che un giorno, mentre pregava, tre gocce di latte cadessero dal seno della statua alle sue labbra... un racconto dall'e­vidente sapore di "rito iniziatico". Anche Notre Dame de Rocama­dour era una madonna miracolosa di legno nero. Si diceva che l'a­vesse scolpita il Santo Amatore, che nella tradizione era con­siderato come un "sosia" del pubblicano Zaccheo, convertito nei Vangeli da Gesù Cristo. Il culto di questa Madonna si diffuse all'epoca delle Crociate ed ebbe una cappella anche nella zona del Siccomario.

Si narra che Amadour, vescovo di Autun, nel sec. V ritrovò in Antiochia di Siria le ossa dei santi Giulitta e Quirico (madre e fi­glio, entrambi martirizzati nell'anno 304) e se le portò in Francia. Percorrendo le nostre strade per ritornare a casa, avrebbe dispensa­to con le sue reliquie tanti di quei miracoli che ben due centri del­l'Oltrepò ne tramandano il ricordo: Santa Giuletta e Corvino San Quirico. La famiglia Mezzabarba era particolarmente devota di quei due santi. Le ossa autentiche di St. Amadour sarebbero state scoperte in Francia nel 1166. Secondo i monaci Cistercensi, che ne diffusero il culto sino in Sicilia, il Santo poteva proteggere contro i veleni dei serpenti, quello delle vipere in particolare.

Nella regione del Quercy la sua figura fu identificata miticamen­te con quella del pubblicano Zaccheo, convertito da Gesù Cristo. Una cappella a lui dedicata esisteva nella zona del Siccomario. Se­condo la tradizione, il suo culto sarebbe stato legato a quello delle "Madonne nere", una delle quali era venerata nel celebre santuario di Rocamadour. Alcune ipotesi sulla conversione dei culti pagani richiamano la possibilità che sulla leggenda di St. Amadour si ri­versino le caratteristiche simboliche e iconografiche della coppia madre-figlio Venere e Cupido (cristianizzata nel Medioevo in Vénisse-Veronica e Amadour, ma sembra possibile anche in Giulit­ta e Quirico). Il culto di Venere potrebbe anche essersi tramandato nel nome di Monteveneroso, frazione di Canneto Pavese. Come ulteriore curiosità, ricordiamo che l'immagine di S.te Vénisse, vene­rata il giorno di martedì grasso, corrisponde a quella della sirena Melusina, tante volte raffigurata nei nostri monumenti dell'epoca romanica. La confusione di Amadour con un personaggio dei Vangeli, che d'altronde si verifi­cò anche per San Siro, fu avvalorata da certi misteri ermetici legati al culto delle Madonne Nere.

Un viaggio iniziatico più ridotto, che simboleggiava in piccolo tutto il percorso del pellegrinaggio, era costituito dai labirinti, effi­giati nel pavimento di alcune chiese (come nel San Michele di Pavia). Percorrere il labirinto, come andare a Roma, Gerusalemme o Compostela, rappresentava il lungo viaggio dell'uomo alla ricerca di sé stesso: la consunzione dell'uomo vecchio e la ricerca di un uomo nuovo, il cammino della religiosità medioevale. Il labirinto è simbolo della difficile e faticosa ricerca dell'uomo e del suo per­corso attraverso i misteri della vita. La sua presenza si collega anche al transito tra il mondo materiale e altri mondi.

Immagine di doppia rotazione, come le corna dell'ariete o le piante di chiese rotonde, il monumento ideato da Dedalo è un emblema la cui ori­gine risale almeno all'età megalitica...
In Mesopotamia era chiamato "il Palazzo delle Viscere".
L'ingresso al labirinto, secondo il mitologo Raymond Christinger, corri­sponde al ritorno alla madre, alla terra, alla sorgente delle anime. L'eva­sione fuori del labirinto corrisponde alla rinascita o alla resurrezione.

A Pavia il labirinto pavimentale del San Michele è corredato, ai lati del percorso a schema circolare, dei simboli della terra, del mare, del cielo, dell'uomo. L'anno, raffigurato come un re incoro­nato, troneggia al centro del fluire dei mesi e delle stagioni.

Pellegrini e crociati portarono con sé molti oggetti dalla Palesti­na e dall'Oriente: mercanzie, ma anche reliquie, vere e per lo più false. Fra le reliquie accumulate dai Visconti nel loro castello, si ri­cordano: lembi di veli e di sudari della deposizione di Cristo; frammenti di tuniche e di mantelli di vari personaggi biblici; pezzi di legno della mangiatoia e peli del bue e dell'asino di Betlemme; latte e capelli della Madonna; pezzi di alberi toccati da Gesù; denti di profeti; le pietre con cui fu lapidato Santo Stefano; pezzi del pane moltiplicato da Gesù Cristo nel miracolo famoso dei pesci, quando addirittura il primo vescovo di Pavia, San Siro, sarebbe stato presente come l'anonimo ragazzino che li porgeva; inoltre vi erano un corno di liocorno e l'enorme testa del dragone che sareb­be stato ucciso da San Giorgio. Delle undici spine della corona di Cristo conservate a Pavia, ne rimangono oggi solo tre, dopo furti e dispersioni varie, che continuano ad essere venerate in Duomo, cu­stodite nella Nivola lignea settecentesca dipinta d'oro e d'argento. Le altre otto si trovavano, nel sec. XVII: due nella chiesa del Car­mine, due a Santa Maria di Giosafat in Borgo Ticino, e una ciascu­na nelle seguenti chiese: San Dalmazio, Santa Clara, San Sebastiano Maggiore, Santa Maria delle mille virtù. Dall'Oriente, come ricordo del viaggio, i pellegrini riportavano anche oggetti preziosi e cera­miche (che forse arrivavano anche attraverso normali canali com­merciali). Le facciate delle nostre chiese medievali sono arricchite con piatti e scodelle smaltati in colori pastello e sfumature dorate. Su alcuni di questi bacili figurano splendidi pavoni, su altri scritte a lode di Dio, in caratteri arabi, simili a ricami. Purtroppo le sassate dei ragazzini, le grandinate e la caduta della Torre Civica ci hanno privati di molti di questi tesori.

GLI OSPIZI
La parola "ospizio" e poi quella "ospedale" nacquero a designare i luoghi di accoglienza (di ospitalità, appunto) sui passaggi dei pellegrini, fondati da diverse congregazioni, tanto dagli ordini dei cavalieri come da comunità o signori locali, preoccupati, come di­remmo noi oggi, del fenomeno sociale che rischiava di interferire con le normali attività cittadine. Ecco perché, nelle città, tali ospizi nascevano generalmente fuori dalle mura, di fianco alle strade per­corse dal flusso dei viaggiatori. Secondo lo storico Bascapé gli ospizi dei Templari, dei Gerosolimitani, dei Lazzariti, di Santa Maria in Betlem, erano sempre a levante o a sud delle città, presso la "porta romana"; quelli di Sant'Antonio erano pure nelle vicinan­ze. Invece quelli di San Giacomo, per i pellegrini diretti in Galizia, o di Sant'Egidio, per quelli che andavano al santuario di St. Gilles, alle bocche del Rodano, si trovavano al nord o ad occidente, sulla strada chiamata francisca o francigena. Questo complesso di ospizi, ospedali e ricoveri divenne imponente nei sec. XI-XIII e permise un'organizzazione del viaggio abbastanza rapida e regolare. Dalle Alpi centrali sino a Roma, secondo le descrizioni dell'epoca, si im­piegavano sei settimane di viaggio. Al principio del sec. XIV i pel­legrinaggi a Gerusalemme diminuirono, quelli a Santiago de Com­postela e a St. Gilles quasi terminarono, mentre aumentavano i viaggi a Roma e, più tardi, al santuario di Loreto.

Molti ospedali e diversi ordini monastici che li gestivano si erano dedicati all'assistenza e alla cura di malattie, soprattutto croniche. Il ritorno di crociati e di pellegrini aveva importato in Europa la leb­bra, ritenuta allora una malattia incurabile. Gli ospedali di San Laz­zaro nacquero per ricoverare i lebbrosi. Quelli dedicati a Sant'An­tonio Abate, invece, si specializzarono nel "fuoco di Sant'Antonio" (herpes zoster). La minor frequenza dei pellegrinaggi fu causa della graduale decadenza dei piccoli ospedali, parecchi dei quali scomparvero. Altri si aggregarono, quelli dei Cavalieri Gerosolimi­tani di San Giovanni si trasformarono in Commende. Alla metà del sec. XV, ad esempio, i diversi ospedali presenti in Pavia si fusero nel nuovo grande Ospedale di San Matteo della Pietà, che adottò nel proprio emblema la conchiglia dei pellegrini: la vediamo ancor oggi, nel cortile più vicino alle torri, oggi incluso nell'Uni­versità.

Pubblicato 31/03/2008 12:44:04