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Liutprand - Associazione Culturale

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Articoli

di Pietro Azario, sec. XIV

JACOPO BUSSOLARO, MORALIZZATORE PAVESE


In quei tempi non vi era nessuna città in Lombardia che potesse essere confrontata con Pavia per tanti cittadini ricchi, tanti castelli, tanti popolani opulenti, tanti paesi forti, tanta ricchezza. Certo Pavia era tale che, se i Beccaria non avessero litigato fra loro, non avessero devastato, non avessero avuto e non mantenessero per amico il marchese, e non avessero provocato divisioni nel popolo, mai il signor Galeazzo li avrebbe dominati né avrebbe conquistato la città totalmente. Ma tali fatti furono voluti dalla divina Provvidenza. Durante il lungo dominio dei Beccaria, la giustizia veniva amministrata come essi volevano, e non altrimenti. Essi imponevano il loro arbitrio in città e nel distretto. Non è da stupirsi che ciò abbia provocato contese, anzi è stupefacente che la cosa abbia tanto tardato. Dapprima essi erano pochi e impegnati in piccoli affari, ma ormai erano divenuti molti, ricchissimi e giovani. Sinché però il potere rimaneva nelle mani di pochi, vecchi istitutori, gli affari procedevano in modo retto. Questa era la forza dei Signori Castellino e Fiorello, che erano vecchi e volevano regolare gli affari a modo loro. Invece gli altri, giovani, che non avevano conosciuto la povertà e la miseria, volevano comportarsi altrimenti. Così Pavia era divenuta un postribolo per le donne di cattivi costumi, che erano moltissime, e per i tantissimi giovani corrotti. Né Dio né i Santi vi erano rispettati. Anzi feste, danze, cantilene e strumenti musicali vi risuonavano dappertutto. Quando, secondo gli antichi costumi, era il momento delle veglie religiose, maschi e femmine si ritrovavano insieme per godere di piaceri carnali.

Un albero simile è raffigurato nella fontana pubblica medievale di Massa Marittima.

Un certo giovane, per sollazzo, piantò un albero in un prato di Pavia, dove passavano tutti gli abitanti della città e dei dintorni, presso il monastero di San Martino (ove oggi sono le scuole De Amicis) e il tronco e i rami vennero forati. Nei fori dell’albero furono inserite certe cordicelle, che potevano essere tirate da una fossa nascosta, in modo da far agitare molti falli disposti sull’albero e sui suoi rami, realizzati di diverse forme: uno più grande e lungo dell’altro, e alcuni, pur imitando appropriatamente la forma d’un fallo, erano di misura spropositata. Così si agitavano sui rami, al cospetto di tutta Pavia (e non solo donne e uomini pavesi, ma persino i cani accorrevano a vederli). Poi quel giovane fece venire diversi amici vestiti come donne sposate, vedove e religiose, ognuna con un bastone e un paniere. Si misero a battere a gara i rami dell’albero e a lanciare i loro bastoni, in modo da far cadere i simulacri fallici. Se ne cadeva uno piccolo, veniva riposto mal volentieri nel paniere. Se invece era grande, nasceva fra loro una contesa, e se era enorme arrivavano sino a strapparsi i capelli e i vestiti. Dopo aver così raccolto tutti i falli, nacque addirittura fra loro una disputa di gran lunga esagerata a proposito dello scherno di un fallo dal brutto aspetto. Udite tali ed altre cose, Fra Jacopo Bussolaro, dell’Ordine di Sant’Agostino, eccellentissimo predicatore, iniziò a predicare del disprezzo del mondo. Alle sue prediche venivano in massa il signor Castellino, in portantina, e Fiorello, con le loro mogli ed amici, e poi molti altri.

I signori Castellino e Fiorello Beccaria curavano anche di animare e stimolare il frate e d’accenderlo di sacro zelo, perché incitasse il popolo di Pavia, distogliesse i giovani dalle loro imprese e raccogliesse la benevolenza popolare. Elogiavano tanto quel frate da non volere ascoltare le prediche di altri Frati, ma solo le sue. Volgarmente però si dice che «anche le volpi vengono catturate». Così accadde per i signori Fiorello e Castellino. I pavesi nel frattempo resistevano virilmente a mano armata, per terra e per acqua, al signor Galeazzo, ottenendo belle vittorie più che sconfitte, e risalendo con navi il Ticino, coi loro alleati fortificati a Magenta e da quelle parti, avevano conquistato un gran bottino. Non volendo che il ponte sul Ticino, costruito dal fu signor Luchino, impedisse le loro incursioni per via fluviale, un giorno incendiarono quel ponte e lo distrussero totalmente; lasciarono solo il legno e portarono via le grandi pietre, che rafforzavano i muri degl’ingressi e delle uscite. Tolta questa opportunità, la gente di Milano, così come poteva, era obbligata a traghettare con qualche imbarcazione nascosta tra i canneti e le paludi e nei luoghi occulti della valle del Ticino, nella quale si trovano diversi nascondigli. Anche per terra i pavesi compivano fatti mirabili.

Fra Jacopo imperversava e incitava i pavesi a combattere, convincendoli che i pavesi preferivano morire nella loro patria piuttosto che essere debolmente condotti in terre altrui; ed incitava alla guerra giusta, ricordando la storia e gli esempi dei Romani. Così il popolo pavese, acceso da tali prediche, non temeva la morte. Poiché agiva concorde, otteneva massimi risultati nelle mischie, benché sin da tempi antichi fosse coraggioso, forte ed abile soprattutto nella flotta navale...

Fra Jacopo, il quale ora cominciò a dire tra le sue prediche espressioni più forti e veementi, apertamente rivolte contro i signori Fiorello, Castellino e gli altri Beccaria, che definiva come affamati del frumento e del sangue del popolo di Pavia, dicendo: «O frumentari, o uomini del sangue del Popolo! Non temete il giorno del Giudizio?» I signori Fiorello e Castellino cominciarono a lamentarsi di tali espressioni, ma non capirono bene che quella frase, che abbiamo riportato, doveva essere interpretata come un segnale di pericolo, più che non un’offesa al loro onore. Essi stessi avevano convinto i loro amici a dare ascolto alle prediche di quel Fra Jacopo, e non poterono sottrarli alla sua persuasione. Allora la casata dei Beccaria, vista l’inimicizia del popolo che le si sollevava contro, scelse di abbandonare la città. Senza combattere, in breve tempo se ne andarono, ognuno per conto suo, chi di giorno e chi di notte. Che cosa si potrà dire del senso e della potenza d’una sì grande casata, nella quale dimorò e dimora un sì grande consiglio, prudenza, e tutto il vigore della Lombardia? Quale furore, quale demenza collettiva li espulse dai loro focolari? Ma concluderò in breve che i peccati inveterati generano morte. Una “cassetta di carbone”, quel Fra Jacopo (un pavese qualsiasi, figlio di nessuno, di nessun rango, anzi di oscurissime origini), li allontanò con parole e con truffe, senza spada. Quella casata si era sforzata di ottenere da ogni dove l’aiuto dei ghibellini di Lombardia e soprattutto si erano sforzati i signori Castellino e Fiorello per espellere il signor conte Filippone. Ed ora hanno acconsentito senza combattere, in modo sì miserrimo, all’espulsione propria e di tutti i loro.

Allontanati dunque come disperati, dovettero chiedere il favore del signor Galeazzo per ottenere la loro vendetta. Non si possono però medicare i propri guai, offuscandoli con un’onta maggiore di vergogna. Essi infatti si diedero da fare con tutte le loro energie perché Pavia fosse soggiogata dal signor Galeazzo. Di converso, Fra Jacopo si adoperò con tutte le proprie forze ed energie a difendere la città, con la partecipazione del marchese. Cominciò innanzitutto a distruggere le case dei Beccaria in città, poi nel distretto. Si dice che nelle prediche divulgasse notizie segrete sui Beccaria, che gli erano state raccontate in confessione; soprattutto disse tali cose dei signori Castellino e Fiorello, che indusse e stimolò l’intero popolo alla distruzione di tutti i beni dei Beccaria, della loro prole e progenie e degli amici loro, alla rovina e all’espropriazione degli stessi. Senza nessuna possibilità di difesa, fece distruggere tutte le case, le residenze e i palazzi loro e dei loro seguaci, asportare e vendere le pietre, predicando che ogni pavese dovesse tenere una di quelle pietre sotto il cuscino, a capo del letto, a perpetua memoria dei mali perpetrati dai Beccaria. Non fu lasciata nemmeno una pietra delle fondamenta delle case. Predicava anche che una casa basata sul furto doveva durare per un tempo corto. Così facendo incitò in città tutti, sia guelfi sia ghibellini, contro quella famiglia e li infiammò talmente che non rimase in città nessun amico della casata dei Beccaria...

Allora Fra Jacopo, vedendo che mancava il denaro, scelse un altro modo per raccoglierlo presso i pavesi. Cominciò a predicare dal Carroccio, che si vedeva sempre più spesso (e beato chi poteva toccare il Carroccio, coperto di palii, per spingerlo), e ad incitare uomini e donne ad abbandonare i lacci mondani e a spogliarsi di vestiti lussuosi, argenti, gemme preziose e ornamenti, affinché Dio vincesse i demoni Beccaria e i tiranni di Milano, proteggendo i Signori veri e naturali, come il marchese. Incitava a smettere le belle vesti per vestire la stola nera e il cilicio, affinché Dio potesse esaudirli come giusti. Unanimemente e senza indugio, i pavesi gli obbedirono. Possiamo perciò credere che questo nero fraticello fosse fantastico, per costringere gli spiriti immondi a fare tali cose. Fece nominare un ufficiale esecutore, che io vidi, che andava in giro per Pavia a tagliare le grandi e ampie maniche delle ricche vesti, tessute alla maniera frigia, o ornati d’oro e d’argento, e a tagliare le cinture se ad esse trovava appeso qualcosa di prezioso. Così i pavesi smisero tali vesti e se ne discostarono, indossando mantelli neri, sia le ragazzine sia le donne sposate, e camminavano senza nessuna ghirlanda, come beghine, con la testa coperta, in modo che solo gli occhi si potevano scorgere. Oggi i pavesi hanno costumi opposti, persino in dispregio alla volontà e ai proclami del Signore di Milano. Allora invece, in tal modo, a Pavia cominciò a raffreddarsi la lussuria: dov’erano finiti gli studenti, dove le pitture di uomini e donne? Di certo quell’ufficiale non trovò nulla contrario all’ordine se non presso alcune prostitute, che furono pubblicamente denunciate ed espulse. Fra Jacopo fece un editto contro le meretrici, affinché a nessun uomo o donna fosse lecito lordare il matrimonio, e fece pubblica giustizia con la decapitazione di chi infrangeva tali regole. Così un uomo non osava avere rapporti con la moglie incinta, né baciare, come è costume, i piedi di San Cristoforo, né andare alle veglie. Venduti dunque oro, argento e gemme, diamanti e pietre preziose, sino a Venezia, i pavesi ne ricavarono una gran somma di denaro.

Quella cassetta di carbone, predicando dal suo Carroccio, più volte confermava e confortava il popolo, che chiamava santo, a non dubitare dei viveri, che egli (così affermava) era certo di poter ottenere tramite le sue orazioni, purché il popolo conducesse e perseverasse in una vita santa, e sarebbero fluiti a sufficienza, come la manna data a Mosé nel deserto. Molti gli credevano...

Poiché però i cittadini non riuscivano a resistere più a lungo, costretti dalla fame estrema, i centurioni con Fra Jacopo consegnarono la città al signor Galeazzo, sotto alcuni accordi, nel 1361, dopo un assedio di sette anni...

Quel frate incauto, nella consegna della città che aveva fatto al signor Galeazzo, si era curato degli altri e non di sé stesso, come sempre affermava nelle sue prediche. Così offrì sé stesso alle offese come indegno di perdono. Tuttavia doveva ricordarsi di essere stato citato al capitolo dal suo Maestro Generale e d’essere stato scomunicato in contumacia, o di essere caduto nella scomunica. Era incorso anche nella pena della scomunica con carcerazione perpetua. Doveva ricordarsi che, benché si fosse da sé costituito come Tiranno in Pavia, era tenuto ad obbedire al Superiore del suo Ordine degli Eremitani. Invece, trascinato dalla superbia, e credendo che nessuno nell’Ordine fosse a lui pari o simile, rifiutò di comparire, benché più volte citato. Così fu condannato al carcere perpetuo. Così quel Fra Jacopo Bussolaro dell’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino fu condotto a Vercelli e in esecuzione di lata sentenza fu, per ordine del suo Generale, rinchiuso nella casa dell’Ordine e imprigionato in carcere perpetuo e ancor oggi vi rimane. Della sua carcerazione perpetua i pavesi, soprattutto le donne, si dorranno in perpetuo.

Pubblicato 17/11/2018 10:25:39