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Liutprand - Associazione Culturale

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Articoli

di Alberto Arecchi

IL POZZO


C’è un pozzo nel cuore del deserto. Vi potreste immaginare un pozzo con la vera di pietra scolpita e con la carrucola issata su un arco di ferro, come quelli che si vedono nei campielli veneziani, nelle fiabe, oppure nelle tavole della grammatica d’inglese, accanto alla scritta “well”… forse anche con un rampicante che lo ricopre e si nutre delle sue chiare, fresche e dolci acque… Non è così: un pozzo nel deserto è come una fossa a forma d’imbuto, scavata nel suolo in uno dei rari punti in cui la falda d’acqua affiora, e dev’essere mantenuto pulito dagli abitanti del luogo, perché la sabbia non lo riempia. Nella fossa, di solito, cresce almeno una palma da datteri. È come un segnale, si vede a distanza ed aiuta il viaggiatore stanco, assetato, stremato, a trovare il punto d’acqua. Inoltre fornisce un alimento ricco e completo. Uno dei proverbi che si raccontano, a proposito delle palme, vuole che un uomo del deserto riesca a nutrirsi per tre giorni, con un solo dattero.

Sotto la palma, una misera pozza d’acqua, sporca e salmastra, è “il pozzo”. Un punto di ristoro prezioso e vitale per viandanti e pellegrini, che hanno percorso centinaia di miglia attraverso le lande più desolate, e da giorni sono rimasti privi dell’ultima goccia d’acqua. Nessuna reggia al mondo potrebbe valere quanto quell’acqua sabbiosa e viscida, per le gole bruciate che hanno conosciuto i venti dell’altopiano. Molti non sanno che il pozzo, l’oasi e la palma non possono sopravvivere, se non grazie alle mani che mantengono sempre aperto quell’imbuto, libero dalla sabbia, grazie ad una generazione dopo l’altra di “custodi del pozzo”.

Non ci sono archivi né biblioteche, ma per miglia e miglia, all’intorno, i vecchi dai vestiti di color indaco, col velo che difende il volto dallo sguardo impuro degli stranieri, potrebbero raccontarvi per filo e per segno l’elenco completo dei viaggiatori che si sono abbeverati a quell’acqua sporca e salmastra, nel corso degli ultimi mille anni.

Sono passati principi, condottieri, pellegrini, predicatori, predoni e miseri viandanti.

Ci sono passato anch’io. Era una ventosa giornata d’inverno dell’89. Nulla frenava le raffiche fredde che battevano la spianata rocciosa del Ténéré, il “deserto dei deserti”. Sedici anni prima, un albero quasi pietrificato, che indicava da secoli il percorso alle carovane, come un faro nel vasto mare, era stato accidentalmente abbattuto da un camionista, che forse “non l’aveva visto”. Ora, al suo posto, si ergeva una specie di gigantesco attaccapanni metallico, tetra e sarcastica parodia dell’albero d’altri tempi. Non lontano, una pompa eolica faceva pensare alla presenza d’acqua; ma si trattava di rottami, come tanti altri pezzi di metallo di cui è costellato il deserto. Avrei dovuto percorrere ancora centottanta chilometri, prima d’incontrare “il mio pozzo”. Finalmente, ad una distanza incalcolabile, vidi la macchia scura della palma, che gli strati d’aria calda riflettevano e trasformavano in miraggio.

Arrivai stremato al bordo della minuscola oasi, rallentai e rimasi sommerso dalla nuvola di polvere che io stesso avevo sollevato. Mi precipitai alla pozza, ma la trovai asciutta: solo un po’ di terra scura rivelava la presenza dell’umidità nel suolo. La delusione fu enorme, ma per fortuna portavo con me l’attrezzatura necessaria per scavare. Mi riposai un attimo all’ombra della palma, e poi mi misi all’opera. Fornii il mio contributo alla salvaguardia del piccolo pozzo. Scavai e spalai la terra tutt’intorno, arrivai a quasi un metro di profondità, prima che sul fondo cominciasse a raccogliersi, goccia a goccia, circa mezzo litro d’acqua sporca e quasi potabile. Con un po’ di pazienza, riuscii ad accrescere la riserva, per dissetarmi e rinnovare – allo stesso tempo – la vitalità del punto d’acqua.

Il vento aveva fatto cadere alcune “mani” di datteri. Così si chiamano le infiorescenze a grappolo e ciascun piccolo frutto è detto “dito”. Deglet nuur, “dito di luce”, è l’appellativo per quelli più brillanti, più zuccherini e pregiati come cibo dell’uomo. Approfittai di quel dono della natura e ne assaggiai qualcuno.

Mi attendeva un sonno ristoratore, in quell’oasi che sembrava tratta da un aneddoto sui miraggi. Mi addormentai, avvolto in una specie di burnus o mantella di lana, che mi aveva protetto dal vento e dalla sabbia per tutto il lungo viaggio. Un sonno pesante, in compagnia dei secolari ricordi e dei fantasmi di quel posto, ben più pregnanti di quelli d’un castello scozzese. Non so quanto durasse, né mi accorsi se qualcun altro fosse arrivato all’oasi, mentre ero immerso nel sogno.

Sognai un elefante o forse un mammut che correva con la proboscide alzata e sollevava sbuffi d’acqua da uno stagno pieno di piante acquatiche.

Lo guardavo e non fuggivo… quando mi caricò un feroce guerriero dall’armatura nera di catafratto armato di lancia e scimitarra con un alto elmo a punta.

Non so come ma mi ricordo i suoi occhi di brace che mi fissavano pieni d’odio – o di divino furore? – e mi risuona ancora nelle orecchie il suo grido di guerra.

Passavano carovane cariche d’oro di pelli e d’oggetti preziosi caricati su piccoli cavalli nervosi condotti da servi di pelle nera.

Poi vidi tanti cammelli anzi dromedari. Erano carichi d’oro ed era il seguito d’un gran re nero diretto verso Oriente, alla Mecca dei credenti.

È comprensibile che fossi stupito e un po’ atterrito, al risveglio, al trovarmi in mezzo ad un gruppo di predoni del deserto che cuocevano pezzi di montone su un fuoco di sterpaglie. Mi aveva svegliato il fumo acre del grasso che sfrigolava sulle fiamme e sulle braci. Il capo del gruppo, al vedermi con gli occhi aperti, mi offrì il té alla menta. Era un buon segno: bere il té insieme è una dichiarazione d’ospitalità e d’amicizia. A gesti, e con il ricorso alle mie scarse conoscenze della lingua dei nomadi (un berbero con influssi arabi), nacque una divertente conversazione.

Chiunque abbia attraversato il deserto sa che da tali chiacchiere intorno al fuoco sono nati molti miti coloniali, ma anche alcune fantastiche “scoperte” etnografiche. Interi libri sono scritti su usi, costumi, tradizioni e leggende dei nomadi, si sono basati su interviste e racconti interpretati da autori accademici, che avevano una scarsissima conoscenza della lingua in cui si esprimevano i loro interlocutori. Così si sono diffuse tante leggende sugli uomini del deserto, ben più fantastiche di quelle autentiche, che raccontavano soltanto di streghe, orchi e fantasmi. Sono nati racconti di viaggi extraterrestri e di presunte conoscenze straordinarie, conservate negli archivi del deserto, in un mondo in cui l’unica memoria è garantita dalla tradizione orale, come si usava ai tempi d’Omero.

Dopo la cottura, la carne del piccolo montone finì sul piatto comune, in mezzo ai commensali sdraiati in cerchio. La cena era condita da chiacchiere e racconti, in un dialetto stretto che ben presto risuonò alle mie orecchie come un rumore di fondo, mentre il mio pensiero cominciava a viaggiare. Cambiai leggermente posizione e ruotai lo sguardo al cielo. Le foglie della palma erano mosse dal vento, che aveva rapidamente rinfrescato la piccola oasi. Sul tappeto di velluto nero del cielo, le stelle brillavano come diamanti purissimi. Cercai le costellazioni di cui mi ricordo la forma: le due Orse, Orione dalla cintura brillante, l’Auriga di forma pentagonale…

Quella notte, con gli occhi rivolti al cielo, vidi le più belle stelle cadenti, attraverso un cielo terso e nero come l’inchiostro.

Mi addormentai in pace con il mondo, nella notte fresca del deserto. La mattina seguente ero solo, avvolto nel mio burnus. Intorno a me, nessuna impronta, nessuna traccia visibile. Intorno alla pozza d’acqua rinnovata era tutto un brulichio di vita: coleotteri e scorpioni, venuti a dissetarsi. Poi fu la volta delle lucertole. Più tardi arrivò persino una coppia d’uccellini, giunta sino a lì da chissà quale distanza.

La settimana dopo appresi che il punto in cui mi ero fermato era chiamato Hassi genùnn, “il pozzo degli spiriti”, e che nessuno vi aveva più trovato l’acqua da almeno quindici anni. Solo la palma era sopravvissuta, attingendo con le radici ad un qualche misterioso rivolo sotterraneo. Non ho mai saputo se quei predoni fossero uomini viventi, oppure genùnn (spiriti folletti, apparizioni) o ancora immagini del mio lungo sogno ristoratore, dopo un sorso d’acqua sporca e un dattero magico.

Mi piace pensare che da qualche parte, laggiù nel grande nulla del deserto, un vecchio velato ricordi ancora il mio nome, distorto dalla pronuncia locale, come quello del rumi (bianco, europeo) che un giorno ha ridato la vita al pozzo degli spiriti.

Pubblicato 24/04/2008 22:05:30