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Liutprand - Associazione Culturale

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Articoli

di Alberto Arecchi

IL PATRIMONIO ARCHITETTONICO IN AFRICA OCCIDENTALE

Conservazione, restauro e tecnologie appropriate

L'abbandono della cultura materiale locale propone numerosi problemi. Le attuali ricerche di procedimenti "appropriati" non sempre sono adeguatamente riferite all'iniziativa locale. La consapevolezza delle culture materiali specifiche sembra rivelarsi più importante dei grandi progetti di restauro con finanziamenti internazionali.
A lungo si è ritenuto che la conservazione del patrimonio storico ed archltetico fosse un problema riservato alle "grandi civiltà", e che l'Africa (ad eccezione dei monumenti dell'Egitto antico) non avesse né una storia né propri monumenti.
Oggi, sotto lo stimolo dell'UNESCO, l'identificazione di un patrimonio culturale e storico degno di nota si è estesa a tiutt i Paesi del Mondo. Con il rifiuto di uno schema storico eurocentrico, è emersa la necessità di studiare e di salvaguardare le testimonianze dell'identità culturale dei diversi popoli. È emerso nei convegni sul patrimonio storico e architettonico, organizzati annualmente in Africa occidentale dall'lstituto Culturale Africano (Istituzione inter-govemativa, con sedi ad Abidjan e a Dakar), il complesso dei fattori in gioco, tecnici, umani e finanziari, che i Paesi interessati sono ben lontani dal poter risolvere con i propri mezzi.
Nel trattare di architetture di rilevanza storica, il primo interesse si è rivolto alle testimonianze della colonizzazione europea, fortezze, costruzioni durature e scali commerciali, poiché delle culture autoctone si pensava che non sopravvivessero altro che oggetti di arredo: maschere, sculture, piccoli oggetti di culto o d'uso comune. Certo, è cero che in gran parte dell'Africa nera i materiali tradizionali di costruzione (legno ed altre fibre vegetali, terra cruda, gesso) sono deperibili e non sopraxxivono a lungo, se esposti al clima umido senza protezioni adeguate.

Le architetture del periodo coloniale

I primi edifici coloniali furono forti militari e stazioni di scambio commerciale nei punti strategici, per assicurare la penetrazione e l'esportazione delle materie prime. In seguito, porti e città hanno consolidato il controllo amministrativo e politico dei territori conquistati. Vari stili, secondo la nazionalità dei costruttori e l'epoca di fondazione, hanno marcato l'Africa del colonialismo. Sino alla metà del secolo scorso, la maggior parte delle costruzioni utilizzava materiali locali (basalto, calce fatta di conchiglie o di corallo, ghiaia ecc.), adattati però alle tecniche di costruzione europee. L'architettura coloniale classica teneva accuratamente conto dei fattori climatici e studiava accorgimenti per migliorare il benessere degli abitanti: protezioni contro gli insetti (le case sollevate dal suolo, grazie a sistemi di palafitte), contro il sole (ampie verande e gallerie coperte), contro il calore (studio accurato della ventilazione interna), contro la pioggia.
Quando le potenze europee declsero l'occupazione effettiva dei territori africani, un grande sforzo fu dispiegato per costruire le nuove capitali "bianche", importando materiali dalla metropoli e mettendo in opera nuovi sistemi costruttivi già sperimentati in Europa. Si realizzarono edifici con ossature di ferro annegate in murature di blocchi di cemento. Le stazioni ferroviarie (la più interessante è quella di Dakar) ed il Palazzo del Govematore di Grand Bassam (Costa d'Avorio) sono i migliori esempi di tale sistema, che si basava su una progettazione accurata ed una prefabbricazione in Europa delle parti metalliche, poi trasportate e montate in loco. In alcuni casi, troviamo in Africa riflessi o influssi dell'architettura contemporanea europea: a Dakar, l'elegante Institut Pasteur, prodotto dell'Art Nouveau; ad Algeri, l'influsso di Le Corbusier, che in gioventù si era formato sull'architettura vernacolare delle oasi mozabite.
Negli anni Trenta, in Africa occidentale, molti edifici pubblici si ispirarono ad un revival folkloristico dell'architettura sudano-saheliana. Dalle scenografie urbane di Timimoun, nel sud algerino, apera del capitano-urbanista Athénour, all'Istituto d'igiene sociale di Dakar ed all'attuale Palazzo di Ségou (Mali), si diffuse lo stile dell'argilla cruda, le cui forme erano persino imitate con l'uso del calcestruzzo armato. Infine, nel quindicennio successivo alla seconda guerra mondiale, prima delle indipendenze nazionali, anche nell'Africa a sud del Sahara si diffuse lo stile internazionale moderno, basato sui nuovi materiali e sui presupposti ideologici di un progresso eurocentrico.

L'architettura tradizionale africana

Possiamo suddividere il patrimonio architettonico tradizionale dell'Africa occidentale in quattro sotto-insiemi:
1) Una gamma molto varia di abitazioni, che si può classificare in base a caratteristiche regionali, e che tramandano una testimonianza delle diverse organizzazioni sociali, dei livelli e dei processi tecnologici e dei valori culturali dei gruppi etnici che si sono stabiliti nella zona nel corso del tempo.
2) I centri che si sono sviluppati lungo la grande ansa del fiume Niger (Mopti, Djenné, Tombouctou, Gao) ed altri, nati nei grandi incroci di scambio commerciale;
3) Edifici di particolare rilievo culturale (gli esempi più rappresentativi sono le Grandi Moschee delle città appena citate);
4) Grandi palazzi e tombe reali (i più conosciuti sono il Palazzo dei Re d'Abomey, nel Benin, e la Tomba degli Askua a Gao, nell'attuale repubblica del Mali).
Il commercio trans-sahariano, a partire dal nostro sec. XII, ha dato origine a correnti culturali di scambio tra l'Africa del Nord e la grande ansa del Niger. L'islamizzazione ha diffuso moschee ed altri edifici di culto, ma ha anche influenzato la tipologia degli edifici residenziali. Basti pensare ai grandi monumenti dell'architettura sudanese (Tombouctou, Gao e, simbolo più noto, la grande M~oschea di Djenné) per rendersi conto delle qualità espressive dei materiali tradizionali come la terra cruda, e delle loro possibilità di durata quando venga garantita una giusta manutenzione. Per quanto riguarda le tecniche ed i materiali, pur prescindendo da considerazioni etniche e storiche che ci condurrebbero a distinzioni troppo minute, possiarno schematicamente riconoscere nell'Africa occidentale tre grandi zone.
A) Nella fascia semi-arida al bordo del Sahara le costruzioni sono generalmente in terra cruda, talvolta "armata" o stabilizzata con ossature lignee inserite nel corpo delle costruzioni. L'habitat è raggruppato in città, poste lungo le fasce fluviali.
B) Più a sud, nel Sahel, caratterizzato da una pluviometria media, le abitazioni sono di terra (talvolta di paglia) con il tetto di paglia, e sono raggruppate per lo più in piccoli villaggi.
C) Nelle zone umide della foresta, infine, le abitazioni tendono ad essere realizzate interamente in paglia, legno o bambù.
Le forme, i colori, le decorazioni e gli arredi variano moltissimo, secondo la regione e l'etnia degli abitanti, secondo la loro gerarchia sociale (ugualitaria o centralistica) e la loro concezione del mondo (spesso il villaggio ripete, nella disposizione delle case, schemi antropomorfici o cosmogonici). Nelle società più gerarchizzate del Medio Niger e della foresta troviamo veri e propri "palazzi", appartenenti alla casta dei guerrieri, mentre nelle società più democratiche gli unici edifici di una certa monumentalità sono quelli destinati al culto.
Le costrizioni dell'ambiente fisico e del clima e la disponibilità di diversi materiali cambiano la maniera di costruire non meno delle differenziazioni etniche. Nel Senegal orientale, ad esempio, si trovano nell'arrondissement di Salémata case bassari di pietra e case peulh di terra o di crintin (pannelli di rami o di bambù intrecciati ed intonacati con terra), così come nei dintomi di Koussanar convivono case peulh di terra e case wolof di paglia. Ma, mentre verso il Nord i Soninke costruiscono edifici rettangolari con i tetti a terrazza, verso il Sud la maggiore pluviometria li obbliga a fare tetti di paglia a falde e troviamo anche, talvolta, case rotonde in crintin. C'è minore differenza fra una casa soninke ed una peulh dello stesso villaggio che non fra le case soninke di Salémata e quelle della stessa etnia nella regione del fiume Senegal. Anche per i Toucouleur, altro gruppo etnico diffuso dal Nord al Sud, le maggiori pluviometrie obbligano a sostituire le terrazze con tetti a falde di paglia.

Lo stile sudanese

Nei bacini del fiume Niger e del lago Ciad, in quello che in epoca coloniale è stato definito "Sudan occidentale" e oggi è più conosciuto come Sahel, zona di cultura islamica, troviamo un'ampia diffusione di case composte di corpi a pianta rettangolare, intorno a cortili. I duc termini indicano due fasce climatiche contigue: il Sudan è la zona delle savane, che confina a sud con la foresta, e il Sahel ne costituisce Ja "frontiera" verso il deserto: una zona ove solo la pastorizia nomade è possibile, a causa delle scarse piogge. La desertificazione fa spostare verso sud il confine tra le due fasce.
Alcuni autori hanno semplicemente affermato che le costruzioni ad angoli retti, con il tetto piano a terrazza, oppure a cupola, sono state introdotte dal mondo arabo mediterraneo, attraversando il deserto. È un'affermazione difficile da dimostrare. Da tempo, però, si tende ad identificare uno stile unitario "sudano-saheliano", che si esprime in varianti locali attraverso tutta la regione: case a cortile, con tetti piani o a cupole, parapetti forati da gocciolatoi, tutto costruito con argilla cruda, con l'uso di spezzoni di tronchi di palme per le travi e i sostegni delle coperture. Alcune di queste caratteristiche si ritrovano nelle oasi sahariane e nell'architettura mediterranea, non solo in quella mussulmana. La più importante di queste caratteristiche è il cortile a patio, che garantisce l'intimità delle stanze rivolte all'interno. Ad ogni modo, diversi aspetti dello stile sudanese si ritrovano in altre zone, al di fuori dell'area da esso abbracciata, anche al di fuori dell'influsso mussulmano, mentre altri popoli della regione, pur convertiti all'lslàm da lunga data, costruiscono in stili diversi. Citiamo ad esempio Fulani, Nupe, Khassonké. Un autore, Engestrom, attribuisce l'origine d'uno stile che chiama proto-sudanese a una base espressiva che accomuna l'architettura dei Dogon, dei Samo, dei Bobo e dei Numara. Egli ritiene che questi popoli fossero i più antichi abitanti della regione e che abbiano adottato le case quadrate ben prima dell'arrivo dell'lslàm.
L'uso di argilla e pietra permise di evitare l'uso eccessivo di legname e di altri materiali vegetali, in zone semiaride in cui tali risorse non abbondano e in cui il rischio d'incendi può sempre minacciare le costruzioni. La pianta rettangolare si adatta bene alle diverse situazioni urbane della zona, perché permette un migliore sfruttamento degli spazi.
Lo stile sudanese deriva dalla cultura urbana, più che non dalle norme dettate dall'Islàm, e ciò spiegherebbe perché altri popoli mussulmani non l'abbiano adottato e perché, ad esempio, nella regione haussa e nella parte orientale del bacino del lago Ciad, in edifici rurali che sorgono in zone con una maggiore intensità di piogge, si ritrovano coperture a falde di materiali vegetali, applicate su edifici per il resto simili a quelli urbani.
Nel sec. XIV Al Omari descriveva le case del Mali coperte da cupole o da volte "a gobba di cammello", secondo che fossero di pianta rotonda o rettangolare. Oggi, in quell'area, le costruzioni tradizionali sono rettangolari col tetto piano. Le tipologie descritte da Al Omari si trovano piuttosto nelle zone centro-meridionali del territorio degli Haussa.
Una sequenza interessante è apparsa negli scavi delle rovine di Awdaghost, una delle capitali del regno del Ghana, sita nel sud dell'attuale Mauritania. Gli strati più profondi appartengono a un villaggio dei sec. VIII-IX fatto di terra cruda, al quale nel sec. IX si sovrapposero costruzioni di pietra. Successivamente la città venne ricostruita usando le rovine di tali edifici come fondazioni, sulle quali si eressero nuove case di terra. Una moschea di Timbuktù fu descritta nel sec. XVI da Leone l'Africano come "il tempio più maestoso con muri di terra e argilla". Oggi, nella città, tutti gli edifici sono soltanto di mattoni di terra cruda, mentre ancora recentemente, sia a Timbuktù sia nei villaggi circostanti, si vedevano case con la metà inferiore dei muri fatta di pietra. Nel bacino del lago Ciad sono stati ritrovati mattoni cotti, in oltre un centinaio di siti archeologici.
Tale tecnica si poté sviluppare in risposta ai vincoli della situazione geografica: pianure piatte e facilmente allagabili, in cui edifici di terra cruda avrebbero avuto vita breve. L'ipotesi è confermata dal fatto che quando, nel sec. XIX, la capitale del Kanem-Bornu fu spostata a Kakawa, si abbandonò la tecnica del mattone cotto; in quell'epoca un'ondata di siccità, simile a quella conosciuta negli scorsi anni '70, ridusse notevolmente l'estensione del lago Ciad, fece progredire il deserto verso sud e rese meno sensibili gli inconvenienti causati alle costruzioni dalle inondazioni annuali. Inoltre, in tutto il bacino del Niger, ritroviamo il mattone cotto solo in una zona ristretta, intorno a Djenné, in situazioni paludose simili a quelle esaminate nel bacino del lago Ciad. Sembra che la tecnica del mattone cotto fosse conosciuta ben prima del sec. XIV e dell'arrivo dell'architetto Es Saheli.
Esistevano regolari scambi culturali attraverso il deserto, lungo le piste dei commerci e dei pellegrinaggi. I minareti affusolati di Timbuktù, Agadès e Tichitt ricordano le torri delle cittadelle berbere dell'Atlante. Non sappiamo dire se l'influsso stilistico viaggiò da Nord verso Sud o viceversa. Lo stesso discorso vale per le facciate in rilievo e dipinte delle case degli Haussa, di quelle maure di Walata e di quelle marocchine a Marrakech.
La tradizione vuole che le tipiche facciate delle case a due piani di Djenné derivino direttamente dai prototipi di Timbuktù. Gli elementi architettonici dei portali, divenuti sobri elementi plastici, si staccano dall'intonaco d'argilla che riveste i mattoni crudi; due pilastri arrotondati e strombati delimitano tre riquadri sovrapposti: l'inferiore racchiude la porta d'ingresso, il medio una piccola finestra che dà luce all'interno e il superiore, sormontato da una fila di merli piramidali, incornicia pinnacoli fallici in altorilievo.
Una cinquantina d'anni fa, nell'Africa occidentale francese si era diffusa un'imitazione di questo stile e gli edifici pubblici coloniali, benché realizzati in cemento armato, ripetevano le forme dell'architettura sudano-saheliana.

Il degrado del patrimonio architettonico africano

L'architettura africana con valore storico, tanto quella tradizionale come quella coloniale, sta subendo un rapido degrado, dipendente da più fattori.
Innanzitutto la fragilità dei materiali di gran parte degli edifici tradizionali e di quelli coloniali più antichi, che richiedono una manutenzione costante e revisioni periodiche. In particolare, l'abbandono delle fortezze coloniali della tratta degli schiavi si è verificato, per reazione storica, dopo la conquista delle indipendenze. D'altra parte, il rapido mutamento delle società di tipo tradizionale, indotto dall'attrazione urbana e dall'esodo rurale, ed accentuato dai recenti fenomeni di desertificazione, provoca l'apparizione di nuovi modelli di vita e di habitat.
Nei villaggi appaiono nuove lottizzazioni, sulla base di progetti banali ma "moderni", e le case si fanno con blocchetti di cemento e con il tetto in lamiera ondulata. I piani regolatori studiati dalle autorità tengono raramente conto delle usanze consolidate, non rispettano i luoghi sacri delle tradizioni familiari e collettive, non tengono conto delle cosmogonie che si traducevano nella forma fisica del villaggio tradizionale. In un clima di modernizzazione, la nuova generazione finisce per rifiutare quanto appartiene al passato, in nome del progresso.
Questi fenomeni colpiscono la struttura dell'habitat tradizionale. Tuttavia, il valore simbolico di certi edifici collettivi, soprattutto di quelli legati al culto, contnbuisce alla loro salvaguardia e manutenzione periodica, e limita anche i danni derivanti dall'innovazione stilistica, che muta più rapidamente nella concezione dell'abitazione privata.

Il miglioramento dei materiali tradizionali

In generale, la copertura degli edifici è la parte che richiede la maggior attenzione, il maggior investimento di denaro e di artifici tecnici di tutta la costruzione. La paglia, o altri materiali erbacei (stoppie, foglie a ventaglio delle palme rônier), costituiscono un materiale povero legato alla tradizione, che oggi ci si affretta a sostituire con generi di mercato più moderni.
Tuttavia, la climatizzazione offerta dalla copertura con fibre vegetali è la migliore per la freschezza e la ventilazione, tanto che spesso viene ripresa nei nuovi bungalows turistici. A volte essa viene resa più impermeabile con l'inclusione di lastre di fibrocemento. Ciò elimina le infiltrazioni d'aria, ma assicura comunque la riflessione dell'irraggiamento e l'isolamento termico dovuto allo spessore del pacchetto fibroso. Gli inconvenienti principali di una copertura di paglia sono la necessità d'una frequente manutenzione (il tetto deve essere rivisto periodicamente e rifatto completamente ogni due anni), la combustibilità e la facile formazione di nidi d'insetti parassiti. A tutti questi inconvenienti esistono rimedi, offerti dall'industria chimica, che riescono a prolungare la durata della paglia da due sino a sei anni: indurenti delle fibre contro la putrefazione, ignifughi insetticidi, fungicidi. Diverso è il comportamento rispetto al calore ambiente di una parete in pietra o in terra, dalla forte inerzia termica, e di una in crintin, che non isola ma permette, attraverso le screpolature della sua superficie, una micro-ventilazione costante. Nelle regioni più umide la ventilazione è sempre favorita, sia con aperture sulle due fronti della casa sia con l'uso di materiali molto leggeri e porosi per le pareti.
L'uso di materiali modemi può migliorare la durata delle costruzioni, rispetto a quelli tradizionali, ma spesso peggiora le condizioni di benessere all'interno degli edifici. Una parete di cemento, anziché di argilla cruda, trasmette più rapidamente l'onda termica, ed un tetto di lamiera rende addirittura inabitabile l'abitazione per gran parte della giornata. Inoltre, il calcestruzzo viene non di rado usato male: mal dosato, mal calcolati i tempi di presa, con inerti salati o altrimenti inadatti, senza un'umidità costante e sufficiente a consentire una buona presa. In tali condizioni, i manufatti di cemento risultano meno resistenti di quelli realizzati con tecniche tradizionali.
Un altro inconveniente della costruzione moderna è la scarsa adattabilità alle variazioni del nucleo familiare. L'architettura tradizionale, proprio per le sue esigenze di continua manutenzione, ha un carattere evolutivo che permette di adattare la distribuzione degli alloggi in caso di aumenti o riduzioni degli appartenenti al nucleo familiare. Spesso però, come abbiamo osservato, la "modernizzazione" è voluta dagli abitanti per ragioni di prestigio, anche a costo di una spesa molto superiore.

Le politiche di salvaguardia

Occorre affrontare le tematiche dello sviluppo nel loro complesso, non soltanto per salvaguardare alcuni edifici di particolare valore, ma per ricercare un equilibrio tra il mutamento sociale ed i valori tradizionali, nelle strutture economiche ed in quelle socio-culturali.
Paradossalmente, lo studio del patrimonio storico ed architettonico è stato iniziato dagli stranieri, in un'epoca in cui la maggioranza degli Africani preferiva dimenticare e superare i ricordi del passato. Tuttavia, in una società che conosce mutamenti rapidissimi, anche il significato del monumento può essere facilmente frainteso, e rifiutato come simbolo carico di un ricordo politico. I servizi preposti al patrimonio storico sono oggi preoccupati essenzialmente da problemi di metodologia d'inventario, di classificazione e di regolamenti per la protezione dei monumenti e dei luoghi storici. Nel Senegal e nella Costa d'Avorio il mimetismo culturale nei confronti dei Paesi europei si è spinto sino ad elaborare programmi impegnativi di restauro, per alcuni edifici o centri storici, senza che i Governi interessati abbiano alcun mezzo, né tecnico né finanziario per realizzarli.
Il concetto di salvaguardia del patrimonio architettonico, trapiantato in un contesto di sottosviluppo come è quello dell'Africa occidentale, può assumere dimensioni equivoche. L'incapacità di inserirsi in un processo di sviluppo globale dei loro Paesi rischia di condannare le istituzioni nazionali preposte alla conservazione dei monumenti all'immobilismo (a causa della mancanza di finanziamenti) o a fughe in avanti (progetti di restauro irrealizzabili).
Sembra tuttavia che esista un'altra via percorribile. La conservazione del patrimonio storico non dovrebbe essere intesa come un lusso. I Paesi africani sono in condizione di salvaguardare il loro patrimonio e le loro tradizioni, a condizione che sappiano liberarsi da una dimensione storicistica mutuata dai concetti europei del secolo scorso. Occorre sensibilizzare ed associare al recupero del patrimonio culturale la popolazione urbana e quella rurale, e sostituire ai programmi impegnativi di restauro, finanziati dal bilancio statale o da quello degli organismi intemazionali, una campagna pemmanente di manutenzione e di valorizzazione, gestita a livello locale. Una tale azione darebbe nuovamente valore sia alla tradizione della comunità locale, che ha fatto vivere il monumento e che lo riassumerebbe a simbolo di continuità, sia alle capacità tecnologiche ed alle strutture artigianali della società africana, che potrebbero così riorganizzarsi ed acquisire gli strumenti per una transizione non distruttiva in un mondo economico moderno.

NOTA BIBLIOGRAFICA

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Pubblicato 19/03/2008 09:59:33