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Liutprand - Associazione Culturale

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Articoli

di Bradley T. Lepper, Kenneth L. Feder, Terry A. Barnhart e Deborah A. Bolnick

CIVILTA' PERDUTE E RITROVATE IN AMERICA

una realtà alternativa

Pubblichiamo in traduzione italiana il primo di tre articoli scritti dagli autori per il sito CSI (The Committee for Skeptical Inquiry), in risposta al documentario “The Lost Civilizations of North America”, e a sostegno delle asserzioni dell’archeologia e dell’antropologia ufficiali sul passato dell’America del Nord.

Il documentario “The Lost Civilizations of North America” è un elemento della lunga serie di tentativi falliti di popolare l’antico passato dell’America con i discendenti di tribù perdute, città perdute e, come dice lo stesso titolo, civiltà perdute.

Mentre ci sono diversi significati vernacolari del termine civiltà, gli archeologi tendono a usarlo in un senso preciso e limitato, per indicare un particolare tipo di società. Per esempio, nel suo classico elenco delle caratteristiche delle più antiche civiltà umane, lo studioso di preistoria V. Gordon Childe (1951) includeva la specializzazione del lavoro, la stratificazione sociale, la produzione di un surplus alimentare, la costruzione di edifici monumentali, gli insediamenti urbani e un consistente sistema di registrazioni delle memorie (solitamente, ma non sempre, in forma scritta). Più recentemente, Joseph Tainter (1988) ha aggiunto alla lista lo sviluppo di un apparato formale di governo.

Civiltà perdute

Per molti rami delle scienze storiche, il termine civiltà assume un significato completamente diverso, spesso codificato, specialmente quando vi si aggiunge una parola apparentemente insignificante, come “perduta”. Una vasta schiera di pseudoscienze si è ispirata all’espressione "civiltà perduta", in particolare da chi crede d’aver trovato una novità archeologica che fa riscrivere la storia d’un particolare popolo o d’un intero continente, o nel caso estremo dell’intera umanità (Childress 1992; Hancock 1995, 2003; Haughton 2007). La storia dell’archeologia americana sulle culture aborigene del Nord America è densa di problemi relativi all’indiscriminato e spesso confuso uso dell’espressione “civiltà perduta” e di termini simili: “razza perduta” e “tribù perduta”.

Molte dichiarazioni relative all’esistenza nell’antichità d’una civiltà perduta sono, in effetti, basate sulla narrazione mitica di Atlantide fatta da parte di Platone. Molto tempo fa (solitamente si dice più di diecimila anni fa) e molto lontano (su un’isola dell’Atlantico o sotto i ghiacci dell’Antartide o nei fondali del Giappone, ecc.), esisteva una civiltà enormemente avanzata e tecnologicamente sofisticata, il cui impatto sulla storia umana fu grandissimo. Nella versione estrema del mito della civiltà perduta, la società in questione possedeva tecnologie che neppure la società moderna padroneggia ancora. Purtroppo un terribile accidente, o una guerra o una catastrofe naturale, distrusse quella civiltà nell’arco brevissimo d’una notte e da allora è diventata “perduta”. In tali storie, si pensa che gli storici e gli archeologi convenzionali siano ciechi rispetto all’evidenza di tale civiltà o, in alcuni casi, ben coscienti dell’evidenza ma complici di una duratura cospirazione per mantenere tutto sotto silenzio, e far valere la solita storia ufficiale trita e ritrita, emanata dalle loro torri d’avorio.

In un sotto-capitolo di pseudostoria del genere “civiltà perdute”, la civiltà perduta non è un gruppo etnico precedentemente sconosciuto che risiede nella cosiddetta “dimensione dei misteri del tempo”, ma piuttosto una società antica, altrimenti ben conosciuta, che è notevole in modo primario come un risultato d’una propria posizione geografica, non per un livello precoce di tecnologia sofisticata. Pur limitandoci al Nord America, la lista di tali pretese scoperte è lunga, benché sia molto ridotta la loro evidenza, e include: regni celtici nel nord-east degli Stati Uniti, migliaia d’anni fa (Fell 1976); insediamenti di cristiani copti nell’antico Michigan (basati sulle cosiddette “reliquie del Michigan”) (Halsey 2009); ebrei romani in Arizona (Tucson Artifacts) (Burgess 2009); le tribù perdute d’Israel in Ohio (the Newark Holy Stones) (Lepper and Gill 2000); e strani miscugli di vari popoli antichi del Vecchio Mondo, nei recessi segreti del Grand Canyon in Arizona ("Explorations in Grand Canyon" 1909) e in una grotta nel sud-est dellIllinois (Burrows Cave) (Joltes 2003). Tali pretese scoperte si basano essenzialmente sulla stessa ipotesi: antichi europei, africani o asiatici sarebbero giunti alle Americhe prima di Colombo, molto prima: migliaia d’anni prima dei Vikinghi, essi si sarebbero stabiliti sul Nuovo Continente e avrebbero avuto un forte impatto sui nativi, ma poi in qualche modo sarebbero scomparsi, per la storia e gli storici. Oggi, un gruppo di “studiosi indipendenti” (un eufemismo spesso usato oer indicare scrittori privi di un’affiliazione istituzionale, di istruzione formale o di esperienza archeologica) strombazza l’evidenza di quegli antichi coloni delle Americhe, disseminando le loro storie revisioniste – non in riviste professionali accreditate, ma in libri popolari, riviste rotocalco e talvolta su siti web o tramite documentari sulle Tv via cavo.

Le civiltà perdute del Nord America

Una recente reviviscenza di questa "archeologia alternativa" (un altro eufemismo, usato per reclamare un’antichità priva di qualsiasi evidenza scientifica credibile) si può vedere nel documentario The Lost Civilizations of North America (prodotto da Steven Smoot, Rick Stout, and Barry McLerran), descirtto sulla copertina del DVD come " il racconto stringente della distruzione gratuita della storia antica". Secondo questo video, la pretesa "distruzione" è sia concreta (nel senso s’una distruzione fisica, forse intenzionale, dell’evidenza archeologica di tale civiltà) sia metaforica (come negazione intellettuale della sua esistenza). Qui si parla dell’imbarazzante risposta degli autori di questo articolo, che hanno rifiutato di partecipare al programma.

Non siamo d’accordo con la grande maggioranza delle interpretazioni dell’antica storia americana presentate nel documentario. Nonostante il tentativo d’ignorare il documentario come un nonsense, la sua grande diffusione e l’inclusione selettiva di studiosi con una credibilità accademica sono riusciti ad attrarre un interesse a livello internazionale. Glenn Beck l’ha commentato con favore il 18 agosto 2010, nel suo programma televisivo, e il sito web di promozione del DVD dichiara che esso ha vinto il premio Best Multicultural Documentary Award all’International Cherokee Film Festival del 2010.

In una serie di tre articoli, forniremo un commento scientifico sulle interpretazioni espresse in questo video sull’antica storia del Nord America, usando lo stesso documentario come un tentativo emblematico di scrivere una storia alternativa del Nuovo Mondo, del tutto priva di sostegni archeologici o d’evidenza storica. In questi tre articoli, rivolgeremo anche due domande particolarmente importanti: Qual è l’evidenza delle civiltà "perdute" in Nord America? E come tale evidenza si può essere "perduta"?

Una realtà alternativa

Il consenso tra i ricercatori nei campi organizzati del sapere non è una cospirazione per ignorare, distruggere o sequestrare le evidenze devianti o anomale, come si allude ripetutamente nel video Lost Civilizations. Il consenso si basa sulle funzioni riconosciute della ricerca e sui principi interpretativi che sono stati sviluppati in relazione a problemi specifici. Il fatto che si crei il consenso tra gli antropologi riguardo alle origini e all’antichità del genere umano nel Nuovo Mondo non fa eccezione.

Figura 1. La mappa mostra la configurazione delle linee costiere odierne dell’Asia nord-orientale e del nord-ovest dell’America, insieme alla massima estensione del ponte di terra di Bering durante il tardo Pleistocene. La sua esistenza, tra 35000 e 11000 anni fa, fornì un passaggio attraverso il quale gli uomini entrarono per la prima volta nel Nuovo Mondo dal Vecchio.

Il consenso su tale argomento tra gli archeologi, i geologi e i biologi è basato sugli scavi di migliaia di siti archeologici, durante più d’un secolo. Una convergenza di dati interdisciplinari indica che il Nuovo Mondo fu per la prima volta popolato almeno 13000 anni fae forse sino a 30000 anni fa da migrazioni provenienti dall’Asia (Meltzer 2009). Quegli uomini entrarono nelle America per la via d’un ampio tratto di terra emersa chiamato Beringia, che collegava allora il nord-est dell’Asia col nord-ovest del Nord America, nei periodi dell’espansione glaciale, quando il livello del mare era più basso (figura 1). I primi migranti erano in numero ridotto ed entrarono in un continente ricco di vita selvaggia, tra cui molte specie oggi estinte come i mastodonti, simili ai mammut, bradipi di terra giganti e felini dai denti a sciabola. Sfruttando le ricchezze di questo "nuovo mondo", la popolazione umana crebbe rapidamente e si espanse attraverso il Nord e il Sud del continente americano per qualche migliaio d’anni. Quando i coloni si muovevano alla ricerca di nuovi territori e il clima migliorava, alla fine del Pleistocene (o "era glaciale") 10000 anni fa, i discendenti di quei primi pionieri si adattavano a nuove condizioni ambientali, molto diverse e mutevoli, che producevano un’abbondanza di diversi modi di vita. Ciascun gruppo si adattava alle condizioni naturali con cui doveva confrontarsi. In certe regioni, habitat estremamente ricchi permisero lo sviluppo dei sistemi agricoli da condizioni di sussistenza alla produzione d’un surplus alimentare sostanziale e condusse alla crescita di società differenziate con molte delle caratteristiche sottolineate da Childe e Tainter nelle loro definizioni di civiltà. Tra queste vi erano le società del Midwest e del Southeast, i cosiddetti “costruttori di tumuli”, dei quali si vede chiaramente l’abilità a organizzare il lavoro comune di grandi gruppi di persone, in un paesaggio archeologico di terrapieni a scala monumentale, che includono: tumuli sepolcrali di forma conica, tronchi piramidali di terra chiamati “tumuli a piattaforma’, tumuli modellati in figure (con le forme di vari animali ed uccelli), e vaste aree disegnate con trame geometriche, costituite da opere di terra (Milner 2004) (figure 2a-2d).

Figura 2a. Miamisburg Mound, in Miamisburg, Ohio, è uno dei maggiori tumuli conici nell’est del Nord America. E’ un tumulo sepolcrale costruito da quella che gli archeologi hanno definito cultura Adena, verso l’800 a.C. - 100 a.C.. (Ohio Historical Society) (K. Feder).

Figura 2b. I terrapieni di Fort Ancient sono una serie di opere di terra che si estende per più di cinque km intorno a un alto scoglio, lungo il fiume Little Miami nell’ Ohio sud-occidentale. I terrapieni furono costruiti dalla cultura Hopewell, tra il 100 a.C. e il 400 d.C.. (CERHAS, University of Cincinnati).

Figura 2c. Serpent Mound è la più grande immagine di serpente al mondo. Si trova nella Adams County, Ohio, ed è attribuita alla cultura di Fort Ancient, verso il 1000-1650 d.C.. (Center for the Electronic Reconstruction of Historical and Archaeological Sites [CERHAS], University of Cincinnati).

Figura 2d. Monks Mound, a Cahokia in Illinois, è il quinto monumento a forma piramidale del mondo, per il suo volume. Alto più di trenta metri, Monks Mound fu costruito e mantenuto con cura tra il 900 e il 1300 d.C. Era la piattaforma elevata sulla quale era eretta la residenza del capo dei. Cahokia. Era la capitale di una potente entità politica ed economica. (K. Feder).

Gli archeologi sono d’accordo sul fatto che la miriade di culture sviluppatesi tra i nativi del Nord America, inclusi i costruttori di tumuli, si sviluppò per la maggior parte in modo indipendente da qualsiasi ispirazione estranea. Quasi certamente ci furono contatti tra gli antichi popoli del Nord America e le civiltà del sud del continente. C’è evidenza, per esempio, di commerci di turchese tra i nativi del sud-ovest dell’America del Nord e le culture della Mesoamerica (Powell 2005), e il mais, addomesticato in Messico, si aprì la strada verso il nord, in tutte le regioni del continente in cui poteva essere coltivato. Tuttavia non appare scientificamente credibile tutto il movimento di persone dal Vecchio Mondo al Nord America sub-artico, dopo l’incursione iniziale dall’Asia di nord-est avvenuta alla fine dell’era glaciale. Non c’è neppure evidenza scientifica che qualsiasi cosa, qui trovata in scavi archeologici, come le monumentali opere di terra mostrate nelle figure 2a-2d-fosse in alcun modo ispirata da visitatori o migranti provenienti da Africa, Europa, o Asia (Fritze 2009). I nativi americani erano pienamente capaci di sviluppare da soli culture complesse e sofisticate senza essere aiutati da altre società. I ritrovamenti archeologici nel Nord America mostrano chiaramente lo sviluppo indigeno delle tecnologie, dell’arte, dell’architettura, di sistemi sociali, di pratiche di sussistenza, e di realizzazioni ingegneristiche dell’America dei popoli nativi. Non esiste alcuna prova archeologica o biologica della presenza di connessioni aliene e non è necessaria tale prova per spiegare l’archeologia dell’America dei nativi.

I produttori del documentario Lost Civilizations, chiaramente, non sottoscrivono tale interpretazione "prevalente" dell’archeologia americana. Invece ciò che sembra emergere è la storia alternativa poco coerente del “diffusionismo”.

In un momento verso la fine dell’ultima era glaciale, alcuni asiatici s’imbatterono nel Nuovo Mondo attraversando il ponte di terra della Beringia. Essi svilupparono società indigene, alcune delle quali poterono beneficiare di vari contatti, non meglio definiti, con il Vecchio Mondo, avvenuti attraverso i millennii. Circa 2000 anni fa, discendenti dei coloni originali, che si erano stabiliti nell’est del Nord America costruivano modesti terrapieni e sopravvivevano con la coltivazione di poche varietà di piante locali. Allora, un contingente d’Israeliti provenienti dalle colline della Galilea arrivò in qualche posto della costa americana orientale e si diffuse tra le culture indigene, agendo come i missionari e attivando la fioritura culturale delle culture dei costruttori di tumuli, che noi conosciamo come Hopewell (e dei successivi Mississippiani). Questi nuovi migranti si portarono la propria religione (il Giudaismo, apparentemente) e la propria lingua scritta (ebreo), che si ritrova nelle iscrizioni di tavolette di pietra o altri oggetti di significato speciale, in alcune regioni. Essi ispirarono anche la costruzione di vaste città attraverso il Midwest e il Southeast, innalzando i locali a un alto livello di civiltà, mutando fondamentalmente e per sempre le culture e le storie dei popoli indigeni, sino allora immersi nell’oscurità.

In stridente contrasto con l’elegante consenso raggiunto dall’opera interdisciplinare di archeologi, geologi, genetisti e linguisti (Meltzer 2009; Goebel et al. 2008), recenti dichiarazioni della rivista diffusionista Ancient American dimostrano ampiamente che nei fatti non esiste consenso tra i ricercatori diffusionisti, riguardo al fatto che culture africane, asiatiche o europee siano giunte in America per servire da propulsori alla vita selvaggia dei Nativi Americani, su quando siano arrivate, o su quali conquiste culturali si supponga abbiano introdotto o ispirato.

Una storia nascosta?

In sostegno alla pretesa che esista una storia nascosta dell’antica America, il narratore del documentario formula un certo numero di domande fondamentali, come: "La maggior parte degli americani non ha idea del fatto che antiche città con architetture progredite costellassero un tempo il paesaggio dell’antico Nord American... Perché i grandi storici non sapevano queste cose e perché esse non sono generalmente note al grande pubblico?"

Qui gli autori del documentario usano un’asserzione priva di sostegno (i grandi storici non conoscono le antiche società dei costruttori di tumuli del Nord America) per rappresentare uno scenario suggerito attraverso tutto il resto del documentario: che c’è stata qualche forma di cospirazione per nascondere la vera storia del Nord America, tanto che persino "i grandi storici" non ne sanno nulla. Nell’usare tale asserzione, i produttori hanno intervistato Roger Kennedy, ex direttore dello Smithsonian's National Museum of American History negli anni 1979-1992 e del National Park Service dal 1993 al 1997. Kennedy ammette che persino nei primi anni 1990 egli non era al corrente del fatto che "importanti resti urbani esistessero in Nord America".

Si tratta di un’affermazione curiosa, visto lo stato della conoscenza archeologica nei primi anni 1990. È possibile che Kennedy o non abbia capito la domanda o ne abbia frainteso lo specifico contesto. Ma da questa candida e onesta personale ammissione di un sono storico non deriva che, come gruppo, gli archeologi e gli storici fossero tutti disinformati e che i capi riconosciuti della comunità scientifica fosse le vittime (o forse gli autori) d’una cospirazione di silenzio. È problematico che i produttori abbiano basato una conclusione su ciò che era semplicemente un caso, prima di porre la domanda cruciale: "Perché i maggiori storici non sapevano nulla di queste cose?" Era questa la situazione generale nei primi anni 1990? È forse vero oggi? Nei fatti, non era così allora e non lo è oggi. Per rispondere meglio a una tale domanda, basterebbe sfogliare la Guida ai Dipartimenti di Antropologia (pubblicata dall’Anthropological Association, un’organizzazione professionale americana). Dalla guida si può vedere che ci sono letteralmente centinaia di archeologi che hanno dedicato le loro carriere allo studio delle culture dei costruttori di tumuli e decine di programmi universitari che trattano tale argomento.

Che molti (la maggioranza degli) americani non conoscano molto o nulla dei costruttori di tumuli è purtroppo un fatto vero, ma tale ignoranza fa parte di una questione più ampia. La maggior parte degli americani non sa molto delle culture dei Nativi Americani, il che è naturalmente una vergogna. Ma è un salto enorme dedurre da tale triste realtà che ci sia qualche forma di cospirazione del silenzio sulla raffinatezza delle società dei costruttori di tumuli dell’antica America.

Anzi, è vero proprio il contrario. Gli archeologi professionisti nelle università e nei musei hanno compiuto uno sforzo coordinato per “dare la parola” ai costruttori di tumuli. Gli archeologi hanno scritto una serie di libri rivolti al grande pubblico sulle società dei tumuli, per esempio Milner (2004); Lepper (2005); Pauketat (2009); e Iseminger (2010). Riviste patinate con un pubblico La rivista del National Museum of the American Indian (una pubblicazione della Smithsonian Institution) ha fatto un articolo su Cahokia, con i più grandi siti dei costruttori di tumuli, nel numero di dicembre 2010 (Adams 2010). Mentre preparavamo il nostro articolo di gennaio 2011, il National Geographic magazine ha pubblicato un pezzo importante sullo stesso sito (Hodges 2011). Non è certamente la prima volta che i costruttori di tumuli sono stati trattati sulle pagine del National Geographic. Già negli scorsi decenni erano apparsi numerosi articoli sui costruttori di tumuli in Archaeology, rivista pubblicata dall’Archaeological Institute of America, rivolta a un pubblico misto, professionale e popolare (v., p.es., Iseminger 1996 and Lepper 1995), e in American Archaeology, pubblicata da Archaeological Conservancy.

Ci sono dozzine di siti web, molti prodotti da università insieme ai governi federale e degli stati, dedicati ai costruttori di tumuli in generale e a specifici siti in particolare. Se scrivete "mound builders" in un motore di ricerca troverete diverse centinaia di Non è per mancanza di sforzi da parte degli archeologi e degli storici che la maggior parte degli americani puù ignorare l’esistenza dei costruttori di tumuli. Parlare d’una cospirazione, tesa a mantenere la pubblica ignoranza, significa ignorare i fatti reali.

Città segrete dell’antica America?

Oltre alla conclusione, di fatto scorretta, che persino alla fine del sec. XX gli storici ignorassero le società di costruttori di tumuli dell’antico Midwest americano, l’intervista di Kennedy presenta altri problemi. Il primo deriva da un’imprecisione nella terminologia, nell’uso di parole come insediamento o città. Nei fatti, non c’è alcuna evidenza archeologica di ampi "resti consistenti di città" in Nord America, secondo quello che si intende con la definizione di città. Con la possibile eccezione di Cahokia, non ci sono insediamenti archeologici in Nord America che si possano confrontare in dimensioni e densità di popolazione con, per esempio, le prime città-stato della Mesopotamia, le prime città lungo il fiume Indo in Pakistan, o qualunque dei grandi insediamenti urbani della Valle del Messico. Persino le stime per Cahokia calcolano raramente la sua popolazione a più d’un migliaio d’abitanti, un numero talvolta usato come una soglia statistica per la definizione di città (figura 3).

Figura 3. Interpretazione artistica dell’aspetto di Cahokia nel suo maggiore splendore, con la visuale puntata sulla zone d’élite della comunità. Gli studi archeologici indicano la presenza di un’estesa palizzata fatta con circa 20.000 pali, che separava un quartiere d’élite in una città che forse poteva contare 10.000 abitanti. (Courtesy of Cahokia Mounds State Historic Site. William R. Iseminger, artist).

Oltre Cahokia, tutti gli altri grandi tumuli del Nord America mostrano un aspetto differente da quello di un insediamento: non erano città, ma piuttosto centri cerimoniali con poca popolazione residente, circondati da numerosi piccoli centri dispersi su un’ampia area tutto intorno. La gente che viveva in quei piccoli villaggi produceva il surplus (in termini di alimenti, ricchezza e lavoro) che manteneva l’élite rituale che viveva nei centri sui tumuli. In un esempio particolarmente notevole di deformazione della terminologia, il documentario definisce il terrapieno che racchiude le opere di terra di Newark in Ohio come "mura della città". È un nonsense. Le opere di terra di Newark includono una serie spettacolare di dodici chilometri quadrati di recinti geometrici e tumuli di diversi profili e dimensioni, ma non c’è alcune evidenza archeologica di una popolazione urbana, né qui (Lepper 2004) né in altre opere di terra monumentali della cultura Hopewell (figura 4).

Figura 4. Gli Octagon sono parte dei molti più ampi Newark Earthworks in Newark, Ohio. Le monumentali ed elaborate opere di terra, costruite dalla cultura Hopewell tra il 100 a.C. e il 400 d.C., incorporano una sofisticata conoscenza geometrica e astronomica nelle loro forme e negli allineamenti. La prima delle “sacre pietre” di Newark fu trovata subito ad est del recinto ottagonale. (Tim Black and/or Greater Licking County Convention and Visitors Bureau).

Per chiarezza: l’affermazione che luoghi come i Newark Earthworks, Poverty Point in Louisiana (Gibson 2000), Etowah in Georgia, Moundville in Alabama (Welch 1991), Town Creek Mound in North Carolina, o Crystal River Mounds in Florida non erano città non è fatta per disprezzarli o per minimizzare i progressi raggiunti da chi li costruì. Si basa unicamente sul fatto, mostrato chiaramente dalla ricerca archeologica, che questa architettura non aveva un carattere urbano ed era cosa diversa da ciò che usualmente definiamo come “città”. D’altronde, una delle questioni più affascinanti proposte da tali strutture è come potesse una popolazione dispersa in piccoli villaggi, priva di re ereditari o faraoni, essersi organizzata nel lavoro di costruzione di simili imponenti opere di terrapieni.

Riguardo a tali siti, il documentario chiede: "La vera questione è: perché questi siti non sono stati preservati? E perché queste civiltà progredite non sono oggi comunemente conosciute?" Per rispondere a queste domande sulla mancanza percepita di salvaguardia dei siti di un’antica "civiltà perduta" in Nord America, il documentario si rivolge alla dottrina del Manifest Destiny e alla teoria dell’evoluzione. Si asserisce nel documentario che era fondamentale per molti Americani nei sec. XVIII e XIX denigrare lo stato di evoluzione dei residenti nativi. Sia distruggendo sia ignorando l’evidenza archeologica di una civiltà sofisticata nel Nord America, i produttori del film affermano che i coloni volessero pulire le loro coscienze riguardo all’espropriazione dei popoli nativi dalle loro terre.

Questa non è certo una rivelazione, in se stessa. Manifest Destiny, il credo della repubblica americana destinata a colonizzare i territori del West al di là del Mississippi, era basato su un’asserzione priva di fondamenti che influenzò gli atteggiamenti scientifici nei riguardi dei Nativi Americani e influenzò la politica federale verso gli Indiani dagli anni 1840 sino alla fine del sec. XIX (Horsman 1981). Il fatto che l’esistenza dei tumuli apparisse come un problema, a coloro che concepivano la cultura dei Nativi Americani come fondamentalmente primitiva e destinata all’estinzione, è un tema che sta stto l’opera classica di Robert Silverberg, Mound Builders of Ancient America (1968). Tale punto è ricordato anche nel capitolo sui tumuli di Kenneth Feder's Frauds, Myths, and Mysteries: Science and Pseudoscience in Archaeology (2011). Perciò, ogni pretesa che il documentario ha esposto su una cospirazione è priva di senso. E occorre inoltre notare che circa metà del documentario è stato dedicato ad affermare che i Nativi Americani furono storicamente dichiarati come un popolo non civilizzato e furono distrutti i loro tumuli, e l’altra metà è dedicata ad affermare che in realtà quei tumuli furono costruiti da emigrati provenienti dal Medio Oriente. Tale pretesa ingiustificata nega lo sviluppo del patrimonio culturale locale dei costruttori di tumuli, nello stesso modo in cui nel sec. XIX si pretendeva che non fossero stati gli antenati degli Indiani nord-americani a costruire i tumuli.

Implicitamente il narratore afferma che " intenzionalmente o no, per motivi religiosi o politici o no, gli esperti moderni concordano nel proseguire la distruzione" e insinua il sospetto che i siti dei tumuli siano soggetti a deliberate distruzioni, nell’intento di eliminare l’evidenza di un’antica civiltà nativa in Nord America. Ciò è un’interpretazione storica molto “libera”. C’era nel sec. XIX chi credeva d’avere una missione, un dovere col passato e col futuro, nel rilevare e descrivere minutamente i siti preistorici sincheé fosse stato possibile. Purtroppo erano una minoranza, ma non insignificante. Molte delle mappe di rilievo usate nel video di Lost Civilizations, infatti, sono il frutto di quegli antiquari storicamente consapevoli del sec. XIX. (Barnhart 1998, 2005).

Mentre il documentario punta sulla "prosecuzione della distruzione" di tumuli preistorici e recinti geometrici, esso glissa ampiamente sul fatto che ci sono sforzi concertati per preservare alcuni dei più rilevanti di questi siti per la ricerca archeologica e l’educazione pubblica. Molti siti di tumuli sono aperti al pubblico, e in molti ci sono musei in cui il pubblico può apprendere la storia degli antichi abitanti. Un recente elenco comprende almeno settanta tumuli salvaguardati e siti di terrapienti negli stati dell’Indiana, Kentucky, Ohio, e West Virginia, preservati e accessibili al pubblico (Woodward and McDonald 2002). Tra i più importanti: Hopewell Culture National Historic Park, Serpent Mound, the Newark Earthworks, e Fort Ancient Earthworks (v. figure 2b, 2c, e 4). Questi siti, insieme con il Poverty Point National Monument, sono stati recentemente posti in una lista dell’U.S. Department of the Interior per essere proposti all’UNESCO per la World Heritage List. Cahokia Mounds in Illinois è già uno dei pochi siti preistorici degli Stati Uniti compreso nella World Heritage List. Non solo: recenti statistiche dello Hopewell Culture National Historic Park in Ohio mostrano che i visitatori annui di questo sito di tumuli sono fra 30 e 40.000. Sempre in Ohio, più di 20.000 persone hanno visitato Serpent Mound nel 2010. Cahokia accoglie un pubblico di circa 320.000 persone all’anno. Se c’è una cospirazione nella comunità scientifica "dominante" per mantenere segreta la cultura dei tumuli, non siamo poi stati molto bravi. Il sospetto che questi siti siano stati sistematicamente e intenzionalmente sottoposti a distruzione, o tenuti nascosti, per lo scopo occulto di nascondere la verità sui Nativi Americani, si dimostra da solo ridicolo.

Al di là del tentativo di provare una cospirazione inesistente per nascondere al pubblico la civiltà dei costruttori di tumuli, il documentario Lost Civilizations presenta quella che si può interpretare come la prova del movimento di gente dal Vecchio Mondo, per emigrare verso il Nuovo Mondo. Dopo di che, sottolinea l’enorme impatto che tali viaggiatori avrebbero avuto sulle società indigene già esistenti sul luogo. Tale "evidenza" consisterebbe in manufatti con messaggi scritti in lingue del Vecchio Mondo, specialmente in ebreo, e nel DNA che si pretende possa provare una connessione tra i costruttori di tumuli Hopewell dell’Ohio e gli antichi Israeliti. Tratteremo di tali argomenti nel secondo e nel terzo articolo della nostra serie.

Disclaimer:

Siamo ben consapevoli che la pretesa che sta sotto il documentario Lost Civilizations, ossia che i costruttori di tumuli del Midwest americano fossero migranti dal Medio Oriente di 2000 anni fa, può essere influenzata dalla dottrina religiosa. Tuttavia una delle nostre posizioni in questo articolo è che qualunque cosa ispiri tale pretesa non è tanto importante quanto il fatto che essa è decisamente errata. Detto questo, lasceremo ad altri di stabilire il ruolo eventualmente giocato dalla religione per influenzare Lost Civilizations e ci limitiamo a focalizzare l’evidenza scientifica relativa a tali fatti.

Citazioni e riferimenti:

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Gli autori

Bradley T. Lepper è il curatore di archeologia della Ohio Historical Society in Columbus, Ohio.

Kenneth L. Feder è professore di antropologia alla Central Connecticut State University. Membro del Committee for Skeptical Inquiry e SKEPTICAL INQUIRER consulting editor.

Terry A. Barnhart è professore di storia alla Eastern Illinois University in Charleston, Illinois.

Deborah A. Bolnick è assistant professor di antropologia alla University of Texas ad Austin.

Fonte: CSICOP, Volume 35.5, sett./ott. 2011

Pubblicato 20/03/2012 18:20:00